Papa Francesco
"IL NOME DI DIO È MISERICORDIA"
«La misericordia è il primo attributo di
Dio. È il nome di Dio. Non ci sono situazioni dalle quali non possiamo
uscire, non siamo condannati ad affondare nelle sabbie mobili».
Ed. PIEMME
e
ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE
AMORIS LAETITIA
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
AGLI SPOSI CRISTIANI
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULL’AMORE NELLA FAMIGLIA
in particolare, i numeri 90-119,
che fanno riferimento all'Inno all'Amore di S. Paolo,
che riportiamo qui diseguito:
L’AMORE NEL MATRIMONIO
89. Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad
esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci
soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore. Perché non
potremo incoraggiare un cammino di fedeltà e di reciproca donazione se
non stimoliamo la crescita, il consolidamento e l’approfondimento
dell’amore coniugale e familiare. In effetti, la grazia del sacramento
del matrimonio è destinata prima di tutto «a perfezionare l’amore dei
coniugi». Anche in questo caso rimane valido che, anche «se possedessi tanta fede
da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E
se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per
averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,2-3). La parola “amore”, tuttavia, che è una delle più utilizzate, molte volte appare sfigurata.
Il nostro amore quotidiano
90. Nel cosiddetto inno alla carità scritto da San Paolo, riscontriamo alcune caratteristiche del vero amore:
«La carità è paziente,
benevola è la carità;
non è invidiosa,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio,
non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia
ma si rallegra della verità.
Tutto scusa,
tutto crede,
tutto spera,
tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).
benevola è la carità;
non è invidiosa,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio,
non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia
ma si rallegra della verità.
Tutto scusa,
tutto crede,
tutto spera,
tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).
Questo si vive e si coltiva nella vita che condividono tutti i giorni
gli sposi, tra di loro e con i loro figli. Perciò è prezioso
soffermarsi a precisare il senso delle espressioni di questo testo, per
tentarne un’applicazione all’esistenza concreta di ogni famiglia.
Pazienza
91. La prima espressione utilizzata è macrothymei.
La traduzione non è semplicemente “che sopporta ogni cosa”, perché
questa idea viene espressa alla fine del v. 7. Il senso si coglie dalla
traduzione greca dell’Antico Testamento, dove si afferma che Dio è
«lento all’ira» (Es 34,6; Nm 14,18). Si mostra quando la
persona non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire. È una
caratteristica del Dio dell’Alleanza che chiama ad imitarlo anche
all’interno della vita familiare. I testi in cui Paolo fa uso di questo
termine si devono leggere sullo sfondo del libro della Sapienza (cfr
11,23; 12,2.15-18): nello stesso tempo in cui si loda la moderazione di
Dio al fine di dare spazio al pentimento, si insiste sul suo potere che
si manifesta quando agisce con misericordia. La pazienza di Dio è
esercizio di misericordia verso il peccatore e manifesta l’autentico
potere.
92. Essere pazienti non significa lasciare che ci
maltrattino continuamente, o tollerare aggressioni fisiche, o permettere
che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando pretendiamo
che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette, o
quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la
nostra volontà. Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire
con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle
scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non
sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la
famiglia si trasformerà in un campo di battaglia. Per questo la Parola
di Dio ci esorta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e
maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31). Questa
pazienza si rafforza quando riconosco che anche l’altro possiede il
diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è. Non importa
se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il
suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi
aspettavo. L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che
porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando
agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato.
Atteggiamento di benevolenza
93. Segue la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos
(persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). Però,
considerata la posizione in cui si trova, in stretto parallelismo con il
verbo precedente, ne diventa un complemento. In tal modo Paolo vuole
mettere in chiaro che la “pazienza” nominata al primo posto non è un
atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività,
da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri. Indica
che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come
“benevola”.
94. Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole
insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve
intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire:
“fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve
porre più nelle opere che nelle parole».
In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di
sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi
in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il
solo gusto di dare e di servire.
Guarendo l’invidia
95. Quindi si rifiuta come contrario all’amore un atteggiamento espresso con il termine zelos (gelosia o invidia). Significa che nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro (cfr At 7,9;
17,5). L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che
non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente
concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi
stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore
apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si
libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha
doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di
scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri
trovino la loro.
96. In definitiva si tratta di adempiere quello che
richiedevano gli ultimi due comandamenti della Legge di Dio: «Non
desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo
prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo
asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17).
L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano,
riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo
con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto «perché possiamo
goderne» (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa
godere di un buon momento. Questa stessa radice dell’amore, in ogni
caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che
alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla, o quella che mi spinge a
far sì che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un
po’ di gioia. Questo però non è invidia, ma desiderio di equità.
Senza vantarsi o gonfiarsi
97. Segue l’espressione perpereuetai, che
indica la vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare
gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama,
non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché è
centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di
stare al centro. La parola seguente – physioutai – è molto
simile, perché indica che l’amore non è arrogante. Letteralmente esprime
il fatto che non si “ingrandisce” di fronte agli altri, e indica
qualcosa di più sottile. Non è solo un’ossessione per mostrare le
proprie qualità, ma fa anche perdere il senso della realtà. Ci si
considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più
“spirituali” o “saggi”. Paolo usa questo verbo altre volte, per esempio
per dire che «la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica»
(1 Cor 8,1). Vale a dire, alcuni si credono grandi perché sanno
più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli,
quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende,
cura, sostiene il debole. In un altro versetto lo utilizza per criticare
quelli che si “gonfiano d’orgoglio” (cfr 1 Cor 4,18), ma in realtà hanno più verbosità che vero “potere” dello Spirito (cfr 1 Cor 4,19).
98. E’ importante che i cristiani vivano questo
atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella
fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il
contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano
cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili.
L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte
dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di
cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà. Gesù
ricordava ai suoi discepoli che nel mondo del potere ciascuno cerca di
dominare l’altro, e per questo dice loro: «tra voi non sarà così» (Mt
20,26). La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente
superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma
quella per cui «chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro
servitore» (Mt 20,27). Nella vita familiare non può regnare la
logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere
chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno
l’amore. Vale anche per la famiglia questo consiglio: «Rivestitevi tutti
di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà
grazia agli umili» (1 Pt 5,5).
Amabilità
99. Amare significa anche rendersi amabili, e qui trova senso l’espressione aschemonei.
Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in
modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi
gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli
altri. La cortesia «è una scuola di sensibilità e disinteresse» che
esige dalla persona che «coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari
ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere».
Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o
rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò
«ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo
circondano». Ogni giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte
della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non
invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto
più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la
capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore».
100. Per disporsi ad un vero incontro con l’altro,
si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. Questo non è possibile
quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori
altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci
permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo
tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti.
L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti
d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo
protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può
sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare
unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile.
Una persona antisociale crede che gli altri esistano per soddisfare le
sue necessità, e che quando lo fanno compiono solo il loro dovere.
Dunque non c’è spazio per l’amabilità dell’amore e del suo linguaggio.
Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che
danno forza, che consolano, che stimolano. Vediamo, per esempio, alcune
parole che Gesù diceva alle persone: «Coraggio figlio!» (Mt 9,2). «Grande è la tua fede!» (Mt 15,28). «Alzati!» (Mc 5,41). «Va’ in pace» (Lc 7,50). «Non abbiate paura» (Mt
14,27). Non sono parole che umiliano, che rattristano, che irritano,
che disprezzano. Nella famiglia bisogna imparare questo linguaggio
amabile di Gesù.
Distacco generoso
101. Abbiamo detto molte volte che per amare gli
altri occorre prima amare sé stessi. Tuttavia, questo inno all’amore
afferma che l’amore “non cerca il proprio interesse”, o che “non cerca
quello che è suo”. Questa espressione si usa pure in un altro testo:
«Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil
2,4). Davanti ad un’affermazione così chiara delle Scritture, bisogna
evitare di attribuire priorità all’amore per sé stessi come se fosse più
nobile del dono di sé stessi agli altri. Una certa priorità dell’amore
per sé stessi può intendersi solamente come una condizione psicologica,
in quanto chi è incapace di amare sé stesso incontra difficoltà ad amare
gli altri: «Chi è cattivo con sé stesso con chi sarà buono? [...]
Nessuno è peggiore di chi danneggia sé stesso» (Sir 14,5-6).
102. Però lo stesso Tommaso d’Aquino ha spiegato che «è più proprio della carità voler amare che voler essere amati» e che, in effetti, «le madri, che sono quelle che amano di più, cercano più di amare che di essere amate». Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, «senza sperarne nulla» (Lc 6,35), fino ad arrivare all’amore più grande, che è «dare la vita» per gli altri (Gv
15,13). È ancora possibile questa generosità che permette di donare
gratuitamente, e di donare sino alla fine? Sicuramente è possibile,
perché è ciò che chiede il Vangelo: «Gratuitamente avete ricevuto,
gratuitamente date» (Mt 10,8).
Senza violenza interiore
103. Se la prima espressione dell’inno ci invitava
alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle debolezze o
agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola – paroxynetai –
che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da
qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una
irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli
altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare
tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e
finisce per isolarci. L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di
fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare
tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri.
104. Il Vangelo invita piuttosto a guardare la trave nel proprio occhio (cfr Mt
7,5), e come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della
Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal
6,9). Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra
cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento
permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la
vostra ira» (Ef 4,26). Perciò, non bisogna mai finire la giornata
senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in
ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia
familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la
giornata in famiglia senza fare la pace!». La
reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri
dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene
dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete
augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per
avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore.
Perdono
105. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di
penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si
annida nel cuore. La frase logizetai to kakon significa “tiene
conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire, è rancoroso. Il
contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo,
che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle
scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro
perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza
è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più
cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il
rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta
del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità
familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la
medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi
errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri diritti si
trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una
sana difesa della propria dignità.
106. Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono
è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è
che «la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo
con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e
generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla
tolleranza, al perdono, alla riconciliazione. Nessuna famiglia ignora
come l’egoismo, il disaccordo, le tensioni, i conflitti aggrediscano
violentemente e a volte colpiscano mortalmente la propria comunione: di
qui le molteplici e varie forme di divisione nella vita familiare».
107. Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo
bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e
perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico
delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi
stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire
dall’affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali.
Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo. C’è
bisogno di pregare con la propria storia, di accettare sé stessi, di
saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter
avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri.
108. Ma questo presuppone l’esperienza di essere
perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti.
Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre
sempre una nuova opportunità, promuove e stimola. Se accettiamo che
l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve
comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare
gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la
nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione,
accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio di tensione permanente e di
reciproco castigo.
Rallegrarsi con gli altri
109. L’espressione chairei epi te adikia
indica qualcosa di negativo insediato nel segreto del cuore della
persona. È l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che
si commette ingiustizia verso qualcuno. La frase si completa con quella
che segue, che si esprime in modo positivo: synchairei te aletheia:
si compiace della verità. Vale a dire, si rallegra per il bene
dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si
apprezzano le sue capacità e le sue buone opere. Questo è impossibile
per chi deve sempre paragonarsi e competere, anche con il proprio
coniuge, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi
fallimenti.
110. Quando una persona che ama può fare del bene a
un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive con
gioia e in quel modo dà gloria a Dio, perché «Dio ama chi dona con
gioia» (2 Cor 9,7), nostro Signore apprezza in modo speciale chi
si rallegra della felicità dell’altro. Se non alimentiamo la nostra
capacità di godere del bene dell’altro e ci concentriamo soprattutto
sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia, dal
momento che, come ha detto Gesù, «si è più beati nel dare che nel
ricevere!» (At 20,35). La famiglia dev’essere sempre il luogo in
cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo
festeggeranno insieme a lui.
Tutto scusa
111. L’elenco si completa con quattro espressioni
che parlano di una totalità: “tutto”. Tutto scusa, tutto crede, tutto
spera, tutto sopporta. In questo modo, si sottolinea con forza il
dinamismo contro-culturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi
cosa lo possa minacciare.
112. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta stegei).
Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha a
che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il
silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica
limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna
dura e implacabile. «Non condannate e non sarete condannati» (Lc
6,37). Benché vada contro il nostro uso abituale della lingua, la Parola
di Dio ci chiede: «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli» (Gc
4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per
rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare
caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione
può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce
gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto
difficili da riparare. Per questo la Parola di Dio è così dura con la
lingua, dicendo che è «il mondo del male» che «contagia tutto il corpo e
incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc 3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9),
l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza
che porta a preservare persino la buona fama dei nemici. Nel difendere
la legge divina non bisogna mai dimenticare questa esigenza dell’amore.
113. Gli sposi che si amano e si appartengono,
parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del
coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso,
mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è
soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E
non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i
punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi
colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che
tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere
dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di
quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo
una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto
quello che a me dà fastidio. È molto più di questo. Per la stessa
ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi
ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore
sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale,
ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me
lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il
ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie
necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in
silenzio davanti ai limiti della persona amata.
Ha fiducia
114. Panta pisteuei: “tutto crede”. Per il
contesto, non si deve intendere questa “fede” in senso teologico, bensì
in quello corrente di “fiducia”. Non si tratta soltanto di non
sospettare che l’altro stia mentendo o ingannando. Tale fiducia
fondamentale riconosce la luce accesa da Dio che si nasconde dietro
l’oscurità, o la brace che arde ancora sotto le ceneri.
115. Questa stessa fiducia rende possibile una
relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire
minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre
braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare
tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili
spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che
la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti.
In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di
condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio
familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la
trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne
apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza
occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano
senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà
mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi
quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e
affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante
tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che
spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna.
Spera
116. Panta elpizei: non dispera del futuro.
In connessione con la parola precedente, indica la speranza di chi sa
che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una
maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità
più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che
tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non
accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle
righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa
non riesce a superare in questa terra.
117. Qui si fa presente la speranza nel suo senso
pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella
persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo.
Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non
esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie.
Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua
potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai
fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo
soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza
che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile.
Tutto sopporta
118. Panta hypomenei significa che sopporta
con spirito positivo tutte le contrarietà. Significa mantenersi saldi
nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare
alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza
dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore
malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa.
Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi
corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare.
Questo mi ricorda le parole di Martin Luther King, quando ribadiva la
scelta dell’amore fraterno anche in mezzo alle peggiori persecuzioni e
umiliazioni: «La persona che ti odia di più, ha qualcosa di buono dentro
di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in sé;
anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi
al punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto
dentro di lui quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci
ad amarlo nonostante tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì
l’immagine di Dio. C’è un elemento di bontà di cui non ti potrai mai
sbarazzare […] Un altro modo in cui ami il tuo nemico è questo: quando
si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo nemico, quello è il
momento nel quale devi decidere di non farlo […] Quando ti elevi al
livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che
cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono
intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel
sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del
male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco
il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente
che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche
parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona
forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena
dell’odio, la catena del male […] Qualcuno deve avere abbastanza fede e
moralità per spezzarla e iniettare dentro la stessa struttura
dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore».
119. Nella vita familiare c’è bisogno di coltivare
questa forza dell’amore, che permette di lottare contro il male che la
minaccia. L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo
verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa.
L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore
malgrado tutto. A volte ammiro, per esempio, l’atteggiamento di persone
che hanno dovuto separarsi dal coniuge per proteggersi dalla violenza
fisica, e tuttavia, a causa della carità coniugale che sa andare oltre i
sentimenti, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché
attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà.
Anche questo è amore malgrado tutto.
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